E’ possibile realizzare la condotta criminosa di cui all’art. 609 bis c.p. via telefono?
Il
caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di legittimità riguardava
svariate condotte ascritte all’indagato e consistenti in conversazioni
telefoniche nel corso delle quali egli, qualificatosi come medico
ginecologico, riferiva alle donne chiamate di essere al corrente degli
accertamenti medici da queste effettuati o in procinto di effettuare e,
rappresentate situazioni di urgenza o di opportunità, le sollecitava a
compiere su se stesse atti di autoerotismo giustificati da finalità
mediche oppure a fotografare la loro zona genitale e trasmettere l’esito
via e-mail.
Il
difensore dell’imputato ricorreva in Cassazione, sostenendo in
particolare la non configurabilità del delitto in questione, stante
l’assenza di qualsiasi contatto fisico tra l’agente e le presunte
vittime.
Sul punto, tuttavia, gli Ermellini hanno richiamato il dictum della sentenza n. 11958/2011, nella quale si evidenzia chiaramente che “l’induzione
della vittima a commettere atti sessuali su di sé da parte dell’agente,
induzione che mira a soddisfare il desiderio sessuale dello stesso,
integra gli estremi del reato previsto dall’art.609-bis cod. pen.”.
D’altra parte, “non costituisce affatto
precedente difforme alla logica della sentenza citata quanto affermato
dalla precedente sentenza n. 15464 del 12/02/2004 (rv. 228498), che
esclude la sussistenza del reato nelle condotte di autoerotismo poste in
essere dall’agente su se stesso in quanto non hanno comportato alcuna
invasione della sfera sessuale della persona che vi assiste”.
Ciò che rileva, infatti, a parere della Cassazione,
ai fini dell’integrazione del reato di violenza sessuale è la
compromissione del principio di autodeterminazione del soggetto in
ambito sessuale.
Il ricorrente, inoltre,
ha affermato che i giudici di merito hanno operato un errato richiamo
alle finalità delle azioni poste in essere dall’imputato, le quali non
sarebbero state dirette al soddisfacimento delle sue pulsioni.
Anche sotto questo profilo, però, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto non condivisibili le argomentazioni proposte.
Infatti, “se non vi è
dubbio che integrano il delitto ex art.609-bis cod. pen.. le condotte
invasive della sfera intima della vittima dettate da finalità di
soddisfacimento delle spinte sessuali dell’agente, la giurisprudenza ha
affermato che il delitto in parola, caratterizzato da dolo generico, è
integrato sul piano soggettivo dalla semplice coscienza e volontà
dell’azione tipica; a ciò consegue che il reato sussiste anche quando la
condotta tipica e l’offesa al bene protetto siano poste in essere per
finalità diverse, quali la volontà di umiliare la persona o di porre in
essere una vendetta, senza che venga coinvolta la sfera sessuale
dell’agente. Sul punto si rinvia alla chiara motivazione della sentenza
di questa Sezione n. 39710 del 21/09/2011 (rv 251318) e, sotto diversa
prospettiva, alla motivazione della precedente sentenza n. 21336 del
15/04/2010 (rv 247282) con riferimento alla finalità di provocare timore
nella persona offesa”.
In altri termini, la fattispecie di reato in esame
risulta integrata da una condotta posta in essere con modalità in
qualche modo violente, subdole o artificiose che privino la vittima
stessa della reale libertà di determinarsi, anche se l’agente agisca per
finalità diverse dalla soddisfazione della propria libido.
* * *
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 7 marzo – 3 maggio 2013, n. 19102
(Presidente Teresi – Relatore Marini)
Ritenuto in fatto
1. La misura cautelare emessa nei confronti dal
Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna a carico del
sig. U. concerne molteplici episodi qualificati ai sensi
dell’art.609-bis, comma 2, cod. pen., in un caso come reato consumato e
in altri quattro casi come reati tentati. Le condotte ascritte
all’indagato consistono in conversazioni telefoniche nel corso delle
quali, qualificatosi come medico ginecologico, riferiva alle donne
chiamate di essere al corrente degli accertamenti medici da queste
effettuati o in procinto di effettuare e, rappresentate situazioni di
urgenza o di opportunità, le sollecitava a compiere su se stesse atti di
autoerotismo giustificati da finalità mediche oppure a fotografare la
loro zona genitale e trasmettere l’esito via e-mail.
Sia il giudice delle indagini preliminari sia il
Tribunale del riesame interessato dall’indagato hanno ritenuto che tale
condotta debba essere ricondotta, nei casi più gravi, ad ipotesi di
violenza sessuale “per induzione” e ad applicare la misura cautelare
della custodia in carcere in considerazione della gravità delle
condotte, della loro reiterazione, della esistenza di condotte simili
poste in essere in altre località e, infine, della circostanza che una
parte delle condotte illecite sono state poste in essere durante il
periodo di custodia domiciliare applicata all’indagato da altro giudice
per fatti di simile natura.
2. Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame è stato proposto ricorso dal Difensore, che in sintesi lamenta:
a. Errata applicazione di legge ai sensi
dell’art.606, lett. b) cod.proc.pen. non potendo le condotte contestate
essere ricondotte al reato di violenza sessuale. In primo luogo, i
giudici hanno fatto ricorso in modo errato al concetto di
soddisfacimento della propria libido sessuale, posto che si tratta di
elemento che non rientra fra i presupposti del reato in parola e che i
giudici hanno impropriamente posto a fondamento del giudizio di
sussistenza del reato (pag. 7 motivazione);
b. Errata applicazione di legge ai sensi
dell’art.606, lett. b) cod.proc.pen. con riferimento alla valutazione
dei giudici che ritengono il reato integrato anche in ipotesi in cui
difetta qualsiasi contatto fisico tra l’autore e la pretesa persona
offesa; la giurisprudenza richiamata dal Tribunale si collega a
situazioni in cui erano coinvolte persone minori, cosa che non si
verifica nel presente procedimento;
c. Errata applicazione di legge ai sensi dell’art.606, lett. b)
cod.proc.pen. per avere il Tribunale omesso di considerare che non
sussistono esigenze cautelari attuali e prevalenti: avrebbero dovuto
essere presi in esame, infatti, la durata della custodia subita, le
condizioni psichiche dell’indagato e i controlli possibili in sede
domiciliare ad opera dei familiari;
d. Vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606, lett.
e) cod.proc.pen. con riferimento alle esigenze cautelari la cui
esistenza è sostenuta da motivazioni stereotipate ed errate. La custodia
domiciliare appare sufficiente a contrastare l’eventuale pericolo di
fuga, così come è stata attribuita eccessiva rilevanza alla vita
anteatta del ricorrente, del tutto omettendo di esaminare le censure
proposte su questo specifico aspetto e così incorrendo nel vizio di
carenza di motivazione
Considerato in diritto
1. La Corte ritiene che il ricorso non meriti
accoglimento. Mentre i motivi di impugnazione terzo e quarto, relativi
alle esigenze cautelari, nella impostazione attuale devono essere
giudicati manifestamente infondati, ad un giudizio di infondatezza deve
giungersi per i motivi concernenti la sussistenza di un grave quadro
indiziario in relazione alla fattispecie di reato ipotizzata.
Muovendo dalle censure relative alla insussistenza
del quadro indiziario o, meglio, alla non riconducibilità delle condotte
dell’indagato alla fattispecie tipica, la Corte ritiene di dover
esaminare partitamente i due profili principali che sono oggetto
dell’impugnazione.
2. Sotto un primo profilo, infatti, il ricorrente
afferma che l’assenza di qualsiasi contatto fisico con le persone offese
esclude che possano dirsi integrati gli estremi del reato contestato.
In altri termini, la commissione di atti sessuali penalmente rilevanti
richiederebbe l’esistenza di una qualche relazione fisica tra agente e
vittima.
Tale impostazione ermeneutica ha formato oggetto di
esame da parte di questa Corte ed è stata ritenuta non rispondente al
dato normativo. È sufficiente sul punto rinviare alla chiara motivazione
della sentenza di questa Sezione n. 11958/2011, udienza del 22/12/2010
(rv 249746), nella quale si chiarisce che l’induzione della vittima a
commettere atti sessuali su di sé da parte dell’agente, induzione che
mira a soddisfare il desiderio sessuale dello stesso, integra gli
estremi del reato previsto dall’art.609-bis cod. pen.. Del resto, non
costituisce affatto precedente difforme alla logica della sentenza
citata quanto affermato dalla precedente sentenza n. 15464 del
12/02/2004 (rv. 228498), che esclude la sussistenza del reato nelle
condotte di autoerotismo poste in essere dall’agente su se stesso in
quanto non hanno comportato alcuna invasione della sfera sessuale della
persona che vi assiste. Infatti, ciò che rileva ai nostri fini, al di là
delle conclusioni cui è giunta l’ultima sentenza citata, è il principio
sotteso alle due decisioni: in assenza di contatti fisici fra i due
protagonisti del fatto, il reato di violenza sessuale risulta integrato
qualora sia compromessa la libera determinazione sessuale della persona
destinataria delle condotte dell’agente e ne risulti aggredita la
personalità sul piano sessuale.
3. Sotto un secondo e diverso profilo, il ricorrente
afferma che i giudici di merito hanno operato un errato richiamo alle
finalità delle azioni poste in essere dall’imputato e al soddisfacimento
delle sue pulsioni. Anche questa impostazione trova smentita nella
giurisprudenza e nei principi che sono stati affermati nel tempo.
Infatti, se non vi è dubbio che integrano il delitto ex art.609-bis cod.
pen.. le condotte invasive della sfera intima della vittima dettate da
finalità di soddisfacimento delle spinte sessuali dell’agente, la
giurisprudenza ha affermato che il delitto in parola, caratterizzato da
dolo generico, è integrato sul piano soggettivo dalla semplice coscienza
e volontà dell’azione tipica; a ciò consegue che il reato sussiste
anche quando la condotta tipica e l’offesa al bene protetto siano poste
in essere per finalità diverse, quali la volontà di umiliare la persona o
di porre in essere una vendetta, senza che venga coinvolta la sfera
sessuale dell’agente. Sul punto si rinvia alla chiara motivazione della
sentenza di questa Sezione n. 39710 del 21/09/2011 (rv 251318) e, sotto
diversa prospettiva, alla motivazione della precedente sentenza n. 21336
del 15/04/2010 (rv 247282) con riferimento alla finalità di provocare
timore nella persona offesa.
4. In altri termini, la fattispecie di reato in esame
risulta integrata dalle intenzionali aggressioni alla sfera sessuale
della vittima, e in tal modo ad una dimensione intima e sensibile della
sua persona e della sua personalità, commesse con modalità in qualche
modo violente, subdole o artificiose che privino la vittima stessa della
reale libertà di determinarsi, e ciò anche nei casi in cui l’agente
agisca per finalità diverse dalla soddisfazione della propria libido.
5. Fatte queste premesse sui principi interpretativi
applicabili alla fattispecie, la Corte rileva che l’ordinanza impugnata
evidenzia come il ricorrente abbia rivolto le proprie attenzioni a
persone sconosciute, circostanza che appare escludere finalità di
vendetta o comunque legate a problemi di relazione con la destinataria
delle azioni; parimenti, le modalità dei fatti sembrano denotare una
specifica e morbosa attenzione alla sfera sessuale delle donne
coinvolte, così che non sembrano sussistere circostanze che sul piano
logico e fattuale escludano la sussistenza degli elementi propri del
reato ipotizzato. Ciò impone, infine, di escludere che le condotte poste
in essere dal ricorrente siano riconducibili all’ipotesi di reato ex
art. 660 cod. pen. prospettata dalla difesa.
6. Così affrontato il tema dell’esistenza di gravi indizi di reato,
essendo fuori discussione il verificarsi delle specifiche vicende che
hanno avuto per protagonista il ricorrente, occorre procedere all’esame
delle censure che concernono le esigenze cautelari. Osserva la Corte che
le condotte che gli sono state contestate risultano commesse mentre il
ricorrente si trovava in stato di custodia cautelare presso il
domicilio. Osserva, ancora, la Corte che l’ordinanza impugnata illustra
in modo logico e coerente le ragioni che giustificano l’applicazione
della più grave custodia cautelare.
7. A tale proposito la Corte osserva che la
possibilità prospettata dal difensore di applicare al ricorrente la
misura della custodia in un luogo ove possa essere seguito e assistito
non appare in via di principio infondata, ma non può certo avere come
riferimento l’abitazione familiare, ove si è dimostrata attuale la
possibilità di commettere i reati oggetto del presente procedimento ed è
emersa la incapacità dei genitori di influire sulle spinte che
determinano il ricorrente ad agire contra legem. Pertanto, in assenza di
diversa indicazione da parte del ricorrente, i motivi concernenti le
esigenze cautelari devono considerarsi manifestamente infondati.
8. Sulla base delle considerazioni che precedono, il
ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi
dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di
giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente
al pagamento delle spese processuali. La Corte dispone inoltre che copia
del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’Istituto
Penitenziario competente perché provveda a quanto stabilito dall’art.94,
comma 1-ter delle norme di attuazione al Codice di procedura penale.